da Valeria Carletti
Ho iniziato a leggere Il ponte di Vitaliano Trevisan durante un lungo viaggio in treno. Difficile è stato chiudere il libro arrivata alla stazione di Torino. Tutto parte dalla morte di un vecchio amico del protagonista. Tu ti aspetti che Trevisan prosegua raccontando il viaggio del protagonista, emigrato da tempo in Germania, verso l'Italia, per salutare per l'ultima volta questo suo "fratello di sangue", e magari capire finalmente le misteriose circostanze della morte del figlio di questi, avvenuta dieci anni prima lasciando cicatrici e sospetti indelebili. Invece no, o meglio, non solo. Perchè il protagonista comincia a pensare, e tu ti perdi nei suoi pensieri. Pagine e pagine in cui entri nella testa di quest'uomo, che ha la bipolare ma t'inonda di parole in cui ti ritrovi completamente perchè racconta la sofferenza sua (ma anche tua) e quella di un paese, l'Italia, che sta inesorabilmente crollando verso un declino culturale e morale che non sembra potersi arrestare. Alla fine però tutto verrà a galla, e la vicenda termina nell'unico modo in cui doveva e poteva finire.
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